Mentre nella nostra società occidentale la funzione di “intrattenimento” e di piacere estetico è prioritaria, nelle culture tradizionali musica, canto e danza non sono arti professionali, destinate alla rappresentazione davanti ma un pubblico, ma nascono da una intercomunicabilita tra arte e vita. Scandiscono importanti avvenimenti nella vita della comunità: la nascita, il riti di iniziazione, la pubertà e il matrimonio, la semina e il raccolto, la maternità, le lunazioni, le infermità e la morte.
Sono parte integrante di un rito sciamanico, strumento di evocazione magica, concepito come evento “privato”, talora segreto e precluso ai non-membri della comunità, e non certo come pubblica esibizione a pagamento!
Chi partecipa lo fa attivamente: non c’è distinzione tra interpreti da un lato e spettatori dall’altro. L’idea di un “palco” che isola fisicamente ed emozionalmente l’atto creativo da un pubblico passivo, in religioso e assorto silenzio, è un moderno retaggio occidentale. Perfino nel teatro classico, da cui il nostro ideale di teatro discende, gli spettatori che si affollavano sugli spalti (e che si accingevano non ad “assistere”, ma a vivere la rappresentazione che poteva durare svariate ore, portandosi dietro da mangiare e quanto occorreva per trascorrere l’intera giornata) partecipavano all’azione scenica con incitazioni verbali, prorompendo in grida, esclamazioni, richiami agli attori con la stessa vibrante emozione che noi oggi riserviamo ai giocatori di calcio negli stadi. Il teatro allora, come lo stadio oggi, fungeva da catartico rituale collettivo di esorcismo.
Il cuore della danza, come del canto, non è nel virtuosismo tecnico, ma nell’intensità espressiva e nella comunicazione emozionale tra l’intero rete e gli astanti. Ciò richiede la giusta “ispirazione”, un rapimento estatico, una forza misteriosa che scaturisce dalle viscere (in alcune culture si parla di vera e propria “possessione”), magari anche indotta dall’utilizzo di bevande alcoliche o droghe rituali.
Come scrive Garcia Lorca parlando di Paganini: “un potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega“, che non ha niente a che fare con la bellezza o con la maestria tecnica.
F. Quinones descrive il “duende” flamenco (il “tarab” del mondo arabo) come “un’istantanea e abbagliante apparizione del subcosciente cieco dell’interprete, del centro stesso della sua anima… a volte violento e drammatico… altre volte un impercettibile sussurro, un tremante fluido impalpabile”.
E Lorca racconta il caso di una vecchia di ottanta anni, che a un concorso di ballo vinse il primo premio contro splendide e giovanissime ragazze, “per il semplice fatto di aver alzato le braccia, sollevato la,testa e dato un colpo di piede sul palco”. Stregoneria pura. Una virtù magica, che battezza con acqua oscura tutti coloro che guardano.
Niente di più lontano dalla nostra idea di danzatore professionista, che strumentalizza a fini economici la propria arte, o anche semplicemente che accetta l’ idea di esibirsi su richiesta. Il “demone” va e viene come vuole; non è possibile costringerlo.