Si commenta da solo:
“Oggi ho fatto con un negoziante di Fez una viva discussione, coll’intento di scoprire quello che pensano i mori della civiltà europea; e per questo non mi affannai a ribattere i suoi argomenti se non quanto era necessario per dargli spago. È un bel moro sui quarant’anni, di fisonomia onesta e severa, che visitò, per affari di commercio, le principali città dell’Europa occidentale, e stette lungo tempo a Tangeri dove imparò un po’ di spagnuolo. Già nei giorni scorsi avevo scambiato con lui qualche parola a proposito d’un piccolo pezzo di stoffa intessuto di seta e d’oro di cui pretendeva la bellezza di dieci marenghi. Ma oggi toccandolo sull’argomento dei suoi viaggi, gli attaccai una parlantina di cui i suoi compagni stessi, che ascoltavano senza capire, rimasero stupiti. Gli domandai dunque che impressione gli avessero fatta le grandi città europee non aspettandomi peraltro di sentire grandi espressioni di meraviglia, perchè sapevo, come tutti sanno, che dei quattro o cinquecento negozianti marocchini che vanno ogni anno in Europa, la maggior parte ritornano nel loro paese più stupidamente fanatici di prima, quando non ritornano più viziosi e più birbanti; e che se tutti rimangono stupiti dello splendore delle nostre città e delle meraviglie delle nostre industrie, nessuno però ne rimane scosso nell’anima, acceso nella mente, spronato a fare, a tentare, a imitare; nessuno intimamente persuaso della inferiorità complessiva del paese proprio; e nessunissimo, poi, se anche avesse questi sentimenti s’arrischierebbe ad esprimerli, e tanto meno a cercar di diffonderli, per paura di tirarsi addosso l’accusa di mussulmano rinnegato e di nemico del suo paese.
— Che cosa avete da dire — gli domandai — delle nostre grandi città?
Mi guardò fisso e rispose freddamente:
— Strade grandi, belle botteghe, bei palazzi, belle officine…. e tutto pulito.
Con ciò parve che avesse detto tutto quello che aveva da dir d’onorevole per noi.
— Non ci avete trovato altro di bello e di buono? — domandai.
Mi guardò come per domandarmi alla sua volta che cosa pretendevo ch’egli ci avesse trovato.
— Ma possibile — (mi stizzii) — che un uomo ragionevole come voi siete, che ha visto dei paesi così meravigliosamente diversi e superiori al suo, non ne parli almeno con stupore, almeno colla vivacità con cui il ragazzo d’un duar parlerebbe del palazzo d’un pascià? Ma di che cosa vi meravigliate dunque al mondo? Che gente siete? Chi vi capisce?
— Perdóne Usted, — rispose freddamente; — io vi rispondo che non capisco voi. Quando v’ho detto tutte le cose nelle quali credo che siate superiori a noi, che volete che vi dica di più? Volete che vi dica quello che non penso? Vi dico che le vostre strade sono più grandi delle nostre, che le vostre botteghe sono più belle, che avete delle officine che noi non abbiamo, che avete dei ricchi palazzi. Mi par d’aver detto tutto. Dirò ancora una cosa: che sapete più di noi perchè avete dei libri e leggete.
Feci un atto d’impazienza.
— Non v’impazientate, caballero; — ragioniamo tranquillamente. Voi convenite che il primo dovere d’un uomo, la prima cosa che lo rende stimabile, e quella in cui importa massimamente che un paese sia superiore agli altri paesi, è l’onestà; non è vero? Ebbene, in fatto d’onestà io non credo in nessuna maniera che voi altri siate superiori a noi. E una.
— Adagio. Spiegatemi prima che cosa intendete di dire con questa parola onestà.
— Onestà nel commercio, caballero. I mori, per esempio, nel commercio, ingannano qualche volta gli europei; ma voi altri europei ingannate molto più spesso i mori.
— Saranno casi rari — risposi, per dir qualche cosa.
— Casos raros? — esclamò accendendosi. Casi di tutti i giorni! — (E qui vorrei poter riferire tale e quale il suo linguaggio rotto, concitato e infantile). Prove! Prove! Io a Marsiglia. Sono a Marsiglia. Compro cotone. Scelgo il filo, grosso così. Dico: — questo numero, questo bollo, tanta quantità, mandate. — Pago, parto, arrivo al Marocco, ricevo cotone, apro, guardo, stesso numero, stesso bollo…. filo tre volte più piccolo! non serve a niente! migliaia di lire perdute! Corro al Consolato…. niente. Otro. Un altro. Mercante di Fez ordina Europa panno turchino, tanti pezzi, tanto larghi, tanto lunghi, convenuto, pagato. Riceve il panno, apre, misura: primi pezzi, giusti; sotto, più corti; gli ultimi, mezzo metro meno! Non servono più alle cappe, mercante rovinato. Otro, otro. Mercante di Marocco ordina, Europa, mille metri gallone d’oro per ufficiali e manda denaro. Gallone viene, tagliato, cucito, portato…. rame! Y otros, y otros, y otros! — Ciò detto alzò il viso al cielo, e poi, rivolgendosi vivamente verso di me: — Più onesti voi?
Ripetei che non potevano essere che casi eccezionali: non rispose.
— Più religiosi voi? — domandò poi bruscamente. — No!
E dopo qualche momento: — No! Basta essere entrati una volta nelle vostre moschee.
— Ora dite, — soggiunse poi, incoraggiato dal mio silenzio; — nei vostri paesi, succedono meno matamientos? (uccisioni).
Qui sarei stato imbarazzato a rispondergli. Che cosa avrebbe detto se io gli avessi confessato che soltanto in Italia si commettono tremila omicidi all’anno, e che ci sono novantamila prigionieri tra condannati e da giudicarsi?
— Non credo, — disse, leggendomi negli occhi la risposta.
Non sentendomi sicuro su questo terreno, lo attaccai coi soliti argomenti sulla quistione della poligamia.
Saltò su come se l’avessi scottato;
— Sempre questo! — gridò facendosi rosso fino alle orecchie. — Sempre questo! Come se voi aveste una donna sola! E ce lo volete far credere! Una sola è vostra, ma ci son poi quelle de los otros, e quelle che sono de todos y de nadie, di tutti e di nessuno. Parigi! Londra! Caffè pieni, strade piene, teatri pieni. Verguenza! E rimproverate i Mori?
Dicendo questo, stropicciava con mano tremante il suo rosario, e si voltava di tratto in tratto per farmi capire, con un leggero sorriso, che non mi avessi a male del suo sdegno, perchè egli non l’aveva con me; ma coll’Europa.
Vedendo che in questa quistione se la pigliava troppo a cuore, sviai il discorso, e gli domandai se non riconosceva le maggiori comodità della nostra maniera di vivere. Qui fu comicissimo. Aveva degli argomenti preparati.
— È vero, — rispose con un accento ironico; — è vero… Sole? Ombrello. Pioggia? Paracqua. Polvere? Guanti. Camminare? Bastone. Guardare? Occhialino. Passeggiare? Carrozza. Sedere? Elastico. Mangiare? Strumenti. Una scalfittura? Medico. Morto? Statua. Eh! di quante cose avete bisogno! Che uomini, por Dios! Che bambini!
Insomma, non me ne voleva passar una. Trovò persino a ridere sull’architettura.
— Che! Che! — rispose quando gli parlai dei comodi delle nostre case. — State trecento in una casa sola, gli uni sugli altri, e poi salire, salire, salire — e manca aria e manca luce e manca giardino.
Allora gli parlai di leggi, di governo, di libertà, e cose simili; e siccome era un uomo perspicace, mi parve d’esser riuscito, se non a fargli capire tutta la differenza che, sotto questi aspetti, corre fra il suo paese e il nostro; almeno a fargliene brillare alla mente un barlume. Visto che non poteva tenermi fronte su quel soggetto cangiò improvvisamente il discorso, e guardandomi da capo a piedi, disse sorridendo:
— Mal vestidos. (Mal vestiti).
Gli risposi che il vestito importava poco, e gli domandai se non riconosceva la nostra superiorità anche in questo, che, invece di star tante ore oziosi colle gambe incrociate sopra una materassa, noi impieghiamo il tempo in mille maniere utili e divertenti.
Mi diede una risposta più sottile che non m’aspettassi. Disse che non gli pareva buon segno questo aver bisogno di far tante cose per passare il tempo. La vita per sè sola è dunque un supplizio per noi, che non possiamo stare un’ora senza far nulla, senza distrarci, senza affannarci a cercare divertimenti? Abbiamo paura di noi stessi? Abbiamo qualche cosa dentro che ci tormenta?
— Ma vedete, — dissi — che spettacolo triste presentano le vostre città, che solitudine, che silenzio, che miseria. Siete stato a Parigi? Paragonate un po’ le strade di Parigi colle strade di Fez.
Qui fu sublime. Saltò in piedi ridendo, e più coi gesti che colle parole fece una descrizione canzonatoria dello spettacolo che presentano le strade delle nostre città. Va, vieni, corri; carri di qui, carrette di là; un rumore che stordisce, gli ubbriachi che barcollano, i signori che si abbottonano il soprabito per paura dei borsaiuoli; a ogni passo una guardia che guarda intorno come se a ogni passo ci fosse un ladro; i bambini e i vecchi che ogni momento corron rischio d’essere schiacciati dalle carrozze dei ricchi; le donne sfrontate, e persino bambine, orrore! che lanciano occhiate provocanti, urtano i giovani col gomito e fanno mille smancerie; tutti col sigaro in bocca; da ogni parte gente che entra nelle botteghe a mangiucchiare, a ber liquori, a farsi lisciare i capelli, a specchiarsi, a inguantarsi; e i zerbinotti piantati davanti ai caffè che dicono delle parole nell’orecchio alle donne degli altri che passano; e che maniera ridicola di salutare e di camminare in punta di piedi, dondolandosi, saltellando; e poi, Dio buono, che curiosità di femminuccie! — E toccando questo tasto pigliò la stizza e disse che un giorno, in una piccola città d’Italia, essendo uscito vestito da moro, si radunò in un momento una gran folla, e tutti gli correvano dietro e davanti gridando e ridendo, e quasi non lo lasciavano camminare, tanto ch’egli dovette ritornare alla locanda e cangiar vestito. — Ed è così che si fa nei vostri paesi? mi domandò. — Che si faccia qui, si capisce, perchè non si vedon mai dei cristiani; ma nei vostri paesi dove si sa come siamo vestiti, perchè ci sono i quadri, e mandate qui i pittori colle macchine e coi colori a farci i ritratti; fra voi che sapete tutto non vi pare che non dovrebbero accadere queste cose?
Fatto questo sfogo, mi sorrise cortesemente come per dire: — Ciò non toglie che noi due siamo amici.
Cadde poi il discorso sulle industrie europee, sulle strade ferrate, sul telegrafo, sulle grandi opere d’utilità pubblica; e di questo mi lasciò parlare senza interrompermi, assentendo anzi, di tratto in tratto, con un cenno del capo. Quand’ebbi finito, però, mise un sospiro e disse: — Infine poi… a che servono tante cose se dobbiamo tutti morire?
— Insomma, — conclusi, — voi non cangereste il vostro stato col nostro!
Stette un po’ pensando e rispose:
— No, perchè voi non vivete più di noi, nè siete più sani, nè più buoni, nè più religiosi, nè più contenti. Lasciateci dunque in pace. Non vogliate che tutti vivano a modo vostro e sian felici come volete voi. Rimaniamo tutti nel cerchio che Allà ci ha segnato. Con qualche fine Allà ha disteso il mare fra l’Africa e l’Europa. Rispettiamo i suoi decreti.
— E credete, — domandai, — che rimarrete sempre quello che siete? che a poco a poco non vi faremo cangiare?
— Non lo so, — rispose. — Voi avete la forza, voi farete ciò che vorrete. Tutto quello che deve accadere, è già scritto. Ma qualunque cosa accada, Allà non abbandonerà i suoi fedeli.
Ciò detto, mi prese la destra, se la strinse sul cuore e se n’andò a passi maestosi.”
E. de Amicis, “Marocco”, 1889