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Strade grandi, belle botteghe, bei palazzi, belle officine.

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Si commenta da solo:

“Oggi ho fatto con un negoziante di Fez una viva discussione, coll’intento di scoprire quello che pensano i mori della civiltà europea; e per questo non mi affannai a ribattere i suoi argomenti se non quanto era necessario per dargli spago. È un bel moro sui quarant’anni, di fisonomia onesta e severa, che visitò, per affari di commercio, le principali città dell’Europa occidentale, e stette lungo tempo a Tangeri dove imparò un po’ di spagnuolo. Già nei giorni scorsi avevo scambiato con lui qualche parola a proposito d’un piccolo pezzo di stoffa intessuto di seta e d’oro di cui pretendeva la bellezza di dieci marenghi. Ma oggi toccandolo sull’argomento dei suoi viaggi, gli attaccai una parlantina di cui i suoi compagni stessi, che ascoltavano senza capire, rimasero stupiti. Gli domandai dunque che impressione gli avessero fatta le grandi città europee non aspettandomi peraltro di sentire grandi espressioni di meraviglia, perchè sapevo, come tutti sanno, che dei quattro o cinquecento negozianti marocchini che vanno ogni anno in Europa, la maggior parte ritornano nel loro paese più stupidamente fanatici di prima, quando non ritornano più viziosi e più birbanti; e che se tutti rimangono stupiti dello splendore delle nostre città e delle meraviglie delle nostre industrie, nessuno però ne rimane scosso nell’anima, acceso nella mente, spronato a fare, a tentare, a imitare; nessuno intimamente persuaso della inferiorità complessiva del paese proprio; e nessunissimo, poi, se anche avesse questi sentimenti s’arrischierebbe ad esprimerli, e tanto meno a cercar di diffonderli, per paura di tirarsi addosso l’accusa di mussulmano rinnegato e di nemico del suo paese.
— Che cosa avete da dire — gli domandai — delle nostre grandi città?
Mi guardò fisso e rispose freddamente:
— Strade grandi, belle botteghe, bei palazzi, belle officine…. e tutto pulito.
Con ciò parve che avesse detto tutto quello che aveva da dir d’onorevole per noi.
— Non ci avete trovato altro di bello e di buono? — domandai.
Mi guardò come per domandarmi alla sua volta che cosa pretendevo ch’egli ci avesse trovato.
— Ma possibile — (mi stizzii) — che un uomo ragionevole come voi siete, che ha visto dei paesi così meravigliosamente diversi e superiori al suo, non ne parli almeno con stupore, almeno colla vivacità con cui il ragazzo d’un duar parlerebbe del palazzo d’un pascià? Ma di che cosa vi meravigliate dunque al mondo? Che gente siete? Chi vi capisce?
— Perdóne Usted, — rispose freddamente; — io vi rispondo che non capisco voi. Quando v’ho detto tutte le cose nelle quali credo che siate superiori a noi, che volete che vi dica di più? Volete che vi dica quello che non penso? Vi dico che le vostre strade sono più grandi delle nostre, che le vostre botteghe sono più belle, che avete delle officine che noi non abbiamo, che avete dei ricchi palazzi. Mi par d’aver detto tutto. Dirò ancora una cosa: che sapete più di noi perchè avete dei libri e leggete.
Feci un atto d’impazienza.
— Non v’impazientate, caballero; — ragioniamo tranquillamente. Voi convenite che il primo dovere d’un uomo, la prima cosa che lo rende stimabile, e quella in cui importa massimamente che un paese sia superiore agli altri paesi, è l’onestà; non è vero? Ebbene, in fatto d’onestà io non credo in nessuna maniera che voi altri siate superiori a noi. E una.
— Adagio. Spiegatemi prima che cosa intendete di dire con questa parola onestà.
— Onestà nel commercio, caballero. I mori, per esempio, nel commercio, ingannano qualche volta gli europei; ma voi altri europei ingannate molto più spesso i mori.
— Saranno casi rari — risposi, per dir qualche cosa.
— Casos raros? — esclamò accendendosi. Casi di tutti i giorni! — (E qui vorrei poter riferire tale e quale il suo linguaggio rotto, concitato e infantile). Prove! Prove! Io a Marsiglia. Sono a Marsiglia. Compro cotone. Scelgo il filo, grosso così. Dico: — questo numero, questo bollo, tanta quantità, mandate. — Pago, parto, arrivo al Marocco, ricevo cotone, apro, guardo, stesso numero, stesso bollo…. filo tre volte più piccolo! non serve a niente! migliaia di lire perdute! Corro al Consolato…. niente. Otro. Un altro. Mercante di Fez ordina Europa panno turchino, tanti pezzi, tanto larghi, tanto lunghi, convenuto, pagato. Riceve il panno, apre, misura: primi pezzi, giusti; sotto, più corti; gli ultimi, mezzo metro meno! Non servono più alle cappe, mercante rovinato. Otro, otro. Mercante di Marocco ordina, Europa, mille metri gallone d’oro per ufficiali e manda denaro. Gallone viene, tagliato, cucito, portato…. rame! Y otros, y otros, y otros! — Ciò detto alzò il viso al cielo, e poi, rivolgendosi vivamente verso di me: — Più onesti voi?
Ripetei che non potevano essere che casi eccezionali: non rispose.
— Più religiosi voi? — domandò poi bruscamente. — No!
E dopo qualche momento: — No! Basta essere entrati una volta nelle vostre moschee.
— Ora dite, — soggiunse poi, incoraggiato dal mio silenzio; — nei vostri paesi, succedono meno matamientos? (uccisioni).
Qui sarei stato imbarazzato a rispondergli. Che cosa avrebbe detto se io gli avessi confessato che soltanto in Italia si commettono tremila omicidi all’anno, e che ci sono novantamila prigionieri tra condannati e da giudicarsi?
— Non credo, — disse, leggendomi negli occhi la risposta.
Non sentendomi sicuro su questo terreno, lo attaccai coi soliti argomenti sulla quistione della poligamia.
Saltò su come se l’avessi scottato;
— Sempre questo! — gridò facendosi rosso fino alle orecchie. — Sempre questo! Come se voi aveste una donna sola! E ce lo volete far credere! Una sola è vostra, ma ci son poi quelle de los otros, e quelle che sono de todos y de nadie, di tutti e di nessuno. Parigi! Londra! Caffè pieni, strade piene, teatri pieni. Verguenza! E rimproverate i Mori?
Dicendo questo, stropicciava con mano tremante il suo rosario, e si voltava di tratto in tratto per farmi capire, con un leggero sorriso, che non mi avessi a male del suo sdegno, perchè egli non l’aveva con me; ma coll’Europa.
Vedendo che in questa quistione se la pigliava troppo a cuore, sviai il discorso, e gli domandai se non riconosceva le maggiori comodità della nostra maniera di vivere. Qui fu comicissimo. Aveva degli argomenti preparati.
— È vero, — rispose con un accento ironico; — è vero… Sole? Ombrello. Pioggia? Paracqua. Polvere? Guanti. Camminare? Bastone. Guardare? Occhialino. Passeggiare? Carrozza. Sedere? Elastico. Mangiare? Strumenti. Una scalfittura? Medico. Morto? Statua. Eh! di quante cose avete bisogno! Che uomini, por Dios! Che bambini!
Insomma, non me ne voleva passar una. Trovò persino a ridere sull’architettura.
— Che! Che! — rispose quando gli parlai dei comodi delle nostre case. — State trecento in una casa sola, gli uni sugli altri, e poi salire, salire, salire — e manca aria e manca luce e manca giardino.
Allora gli parlai di leggi, di governo, di libertà, e cose simili; e siccome era un uomo perspicace, mi parve d’esser riuscito, se non a fargli capire tutta la differenza che, sotto questi aspetti, corre fra il suo paese e il nostro; almeno a fargliene brillare alla mente un barlume. Visto che non poteva tenermi fronte su quel soggetto cangiò improvvisamente il discorso, e guardandomi da capo a piedi, disse sorridendo:
— Mal vestidos. (Mal vestiti).
Gli risposi che il vestito importava poco, e gli domandai se non riconosceva la nostra superiorità anche in questo, che, invece di star tante ore oziosi colle gambe incrociate sopra una materassa, noi impieghiamo il tempo in mille maniere utili e divertenti.
Mi diede una risposta più sottile che non m’aspettassi. Disse che non gli pareva buon segno questo aver bisogno di far tante cose per passare il tempo. La vita per sè sola è dunque un supplizio per noi, che non possiamo stare un’ora senza far nulla, senza distrarci, senza affannarci a cercare divertimenti? Abbiamo paura di noi stessi? Abbiamo qualche cosa dentro che ci tormenta?
— Ma vedete, — dissi — che spettacolo triste presentano le vostre città, che solitudine, che silenzio, che miseria. Siete stato a Parigi? Paragonate un po’ le strade di Parigi colle strade di Fez.
Qui fu sublime. Saltò in piedi ridendo, e più coi gesti che colle parole fece una descrizione canzonatoria dello spettacolo che presentano le strade delle nostre città. Va, vieni, corri; carri di qui, carrette di là; un rumore che stordisce, gli ubbriachi che barcollano, i signori che si abbottonano il soprabito per paura dei borsaiuoli; a ogni passo una guardia che guarda intorno come se a ogni passo ci fosse un ladro; i bambini e i vecchi che ogni momento corron rischio d’essere schiacciati dalle carrozze dei ricchi; le donne sfrontate, e persino bambine, orrore! che lanciano occhiate provocanti, urtano i giovani col gomito e fanno mille smancerie; tutti col sigaro in bocca; da ogni parte gente che entra nelle botteghe a mangiucchiare, a ber liquori, a farsi lisciare i capelli, a specchiarsi, a inguantarsi; e i zerbinotti piantati davanti ai caffè che dicono delle parole nell’orecchio alle donne degli altri che passano; e che maniera ridicola di salutare e di camminare in punta di piedi, dondolandosi, saltellando; e poi, Dio buono, che curiosità di femminuccie! — E toccando questo tasto pigliò la stizza e disse che un giorno, in una piccola città d’Italia, essendo uscito vestito da moro, si radunò in un momento una gran folla, e tutti gli correvano dietro e davanti gridando e ridendo, e quasi non lo lasciavano camminare, tanto ch’egli dovette ritornare alla locanda e cangiar vestito. — Ed è così che si fa nei vostri paesi? mi domandò. — Che si faccia qui, si capisce, perchè non si vedon mai dei cristiani; ma nei vostri paesi dove si sa come siamo vestiti, perchè ci sono i quadri, e mandate qui i pittori colle macchine e coi colori a farci i ritratti; fra voi che sapete tutto non vi pare che non dovrebbero accadere queste cose?
Fatto questo sfogo, mi sorrise cortesemente come per dire: — Ciò non toglie che noi due siamo amici.
Cadde poi il discorso sulle industrie europee, sulle strade ferrate, sul telegrafo, sulle grandi opere d’utilità pubblica; e di questo mi lasciò parlare senza interrompermi, assentendo anzi, di tratto in tratto, con un cenno del capo. Quand’ebbi finito, però, mise un sospiro e disse: — Infine poi… a che servono tante cose se dobbiamo tutti morire?
— Insomma, — conclusi, — voi non cangereste il vostro stato col nostro!
Stette un po’ pensando e rispose:
— No, perchè voi non vivete più di noi, nè siete più sani, nè più buoni, nè più religiosi, nè più contenti. Lasciateci dunque in pace. Non vogliate che tutti vivano a modo vostro e sian felici come volete voi. Rimaniamo tutti nel cerchio che Allà ci ha segnato. Con qualche fine Allà ha disteso il mare fra l’Africa e l’Europa. Rispettiamo i suoi decreti.
— E credete, — domandai, — che rimarrete sempre quello che siete? che a poco a poco non vi faremo cangiare?
— Non lo so, — rispose. — Voi avete la forza, voi farete ciò che vorrete. Tutto quello che deve accadere, è già scritto. Ma qualunque cosa accada, Allà non abbandonerà i suoi fedeli.
Ciò detto, mi prese la destra, se la strinse sul cuore e se n’andò a passi maestosi.”

E. de Amicis, “Marocco”, 1889

Danze “che portano lo Spirito”

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“Se non sei sincronizzato, è come le unghie sulla lavagna. Se lo sei, è come fresche lenzuola di seta. Continua a  respirare”.  (Sule Greg Wilson, “Il sentiero dei tamburi”).

La Musica è sacra. E’ invocazione delle energie vitali, che crea armonia tra mondo visibile e invisibile e ci “tocca” spiritualmente.

“… la musica, le parole, il movimento si diffondono alle menti, ai corpi, alle anime di tutti i presenti e respiri, sudi, sbatti le palpebre, e senti un formicolio ai piedi, alle mani, allo stomaco o alla tua parte piu intima e non riesci a stare seduto, devi MUOVERTI! La musica è con te; possiedi lo Spirito.”>
(Sule Greg Wilson, “Il sentiero dei tamburi”).

Il primo strumento è se stessi. Nella cultura africana, i danzatori sono le persone “che portano lo Spirito”, che esprimono la forza divina attraverso i loro corpi. Le circostanze esterne possono stimolare qualsiasi tamburo, ma nessuno può interrompere lo Spirito che ti fa ballare.

Il primo segreto è nel respiro profondo, regolare e sempre controllato. Respirare al tempo della musica, unirsi alla musica e sincronizzarsi con essa è la chiave di accesso al potere del corpo. E’ il segreto per non affaticarsi, non sudare, non ansimare, rimanere rilassati… 

Se il tuo respiro è veloce e debole nella parte alta dl torace, nessuna Potenza arriverà. Stai riscaldando la tua testa, limitando la tua sfera di consapevolezza. Ti stai iperventilando. 
Occorre imparare a respirare come un neonato: dall’ombelico.  In modo fresco e lento (4-6 cicli al minuto). Solo in tali condizioni diventiamo intuitivi e creativi, e lo Spirito si manifesta. 

Nel linguaggio corrente, si dice che quando si ha una buona idea si ha avuto una “ispirazione”.  
“I-Spirito-azione”: lo Spirito dell’idea ti entra dentro. 

Lo Spirito arriva tramite i chakra. L’energia deve fluire senza strozzature. Stare piegati mentre si danza, è come fare un nodo nel tubo dell’acqua. Stando dritti e rilassati, si amplifica invece al massimo il flusso energetico che promana dal chakra della radice. 

Raddrizzare la colonna, appiattire la curva lombare, tenere sempre le ginocchia un po’ flesse, strofinarle leggermente tra loro, stare nella piante dei piedi, dondolarsi al suono della musica sono tutti atti che producono calore ed energia, richiamando lo Spirito.

Mente, corpo e spirito devono essere in grado di funzinare “in automatico”.
Per dirigere verso lo Spirito il ritmo impresso nei muscoli e nei nervi, è importante imparare a cantare e suonare (cimbali, tamburello…) mentre si danza. 
Cantare (anche cantichiare a bocca chiusa!) ti fa danzare in modo eccellente, perché costringe il tuo respiro ad andare per forza a ritmo con la musica, a inspirare ed espirare all’unisono. Crea una risonanza interna che pratica un massaggio a tutti gli organi e stimola Chakra e meridiani. Le vibrazioni, come i mantra, stimolano il sistema endocrino e liberano endorfine nel cervello e nel corpo. Inducono una “trance dolce“, come sognare ad occhi aperti.

Usa il tuo corpo per “agganciare” la musica, adoperandolo come cassa di risonanza.
Quando parte la musica, ascolta. Cerca la sonorità piu bassa, poi risali alla piu acuta. Senti in quale parte del corpo vibra. Solo questo. Non pensare al passo successivo. Svuota la mente. Con l’esercizio, arriverà anche l’automatismo, e con quello, tutte le possibilità diventeranno istintive. Per ora, pensare. Solo canta, danza, suona.

Improvvisazione, ritualità, magia

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“Non so parlare, ne scrivere, non so fare altro che cantare. La maggior parte di noi è analfabeta, ma non ci serve saper leggere o scrivere. Noi comunichiamo con il canto e la chitarra, ed e per questo che la nostra musica e così profonda” (Camaron de la Isla).

Se la musica e la danza sono la chiave del rituale magico, l’improvvisazione ne è la formula. Improvvisare significa infatti saper “formulare”, ovvero attingere a un repertorio collettivo di formule tradizionali che l’interprete memorizza, compone, combina e riadatta. 

Improvvisazione non è arbitrarietà.
Si tratta di variare all’interno di un tessuto tradizionale: se l’evento musicale fosse del tutto imprevedibile, infatti, sarebbe escluso dal processo comunicativo. Occorre intendersi su un comune  linguaggio: ciò assicura il successo dell’improvvisazione. La creazione è un fatto personale, ma ha un suo valore sociale.

Nel caso della musica e della danza, la formula è la frase ritmica, la cui struttura varia nei diversi stili. In qualunque forma coreutica, il rispetto del ritmo è imprescindibile. Il ritmo sembra essere l’elemento primario della vita: dal battito cardiaco ai cicli cosmici, la regolarità sembra essere il principio di organizzazione fondamentale della vita, nel nostro universo. 
L’alternanza di ritmi e controritmi nella danza riproducono la lotta cosmogonica di ordine e caos. La vita è pulsazione. 
Lo Spirito si manifesta come ritmo.

Il vanto più diffuso degli artisti gitani è dichiarare di non possedere nessuna formazione accademica, di non studiare mai e di salire sul palco senza provare mai nulla. In realtà ogni capacità comporta uno studio specialistico. Il punto è che questo si realizza in loro fin da piccoli nel loro contesto familiare, al punto da sembrare “un dono naturale”.

Purtroppo la relativa indifferenza alla musica di noi occidentali ci ha portato a una vera e propria condizione di anestesia alla sensibilità musicale.
Per noi che non abbiamo avuto il privilegio di un’educazione musicale fin dal ventre materno, l’unica chiave è nell’addestramento sistematico e regolare, talmente sistematico e regolare da arrivare al punto in cui si genera una sorta di automatismo e il movimento risulta “spontaneo” e naturale. Tale naturalezza in realtà è tutt’altro che naturale, ma frutto del fatto che la tecnica è divenuta, per così dire, automatica. Al punto da dimenticarsene.

Battesimo di acqua oscura

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Mentre nella nostra società occidentale la funzione di “intrattenimento” e di piacere estetico è prioritaria, nelle culture tradizionali musica, canto e danza non sono arti professionali, destinate alla rappresentazione davanti ma un pubblico, ma nascono da una intercomunicabilita tra arte e vita.  Scandiscono importanti avvenimenti nella vita della comunità: la nascita, il riti di iniziazione, la pubertà e il matrimonio, la semina e il raccolto, la maternità, le lunazioni, le infermità e la morte.
Sono parte integrante di un rito sciamanico, strumento di evocazione magica, concepito come evento “privato”, talora segreto e precluso ai non-membri della comunità, e non certo come pubblica esibizione a pagamento! 

Chi partecipa lo fa attivamente: non c’è distinzione tra interpreti da un lato e spettatori dall’altro. L’idea di un “palco” che isola fisicamente ed emozionalmente l’atto creativo da un pubblico passivo, in religioso e assorto silenzio, è un moderno retaggio occidentale. Perfino nel teatro classico, da cui il nostro ideale di teatro discende, gli spettatori che si affollavano sugli spalti (e che si accingevano non ad “assistere”, ma a vivere la rappresentazione che poteva durare svariate ore, portandosi dietro da mangiare e quanto occorreva per trascorrere l’intera giornata) partecipavano all’azione scenica con incitazioni verbali, prorompendo in grida, esclamazioni, richiami agli attori con la stessa vibrante emozione che noi oggi riserviamo ai giocatori di calcio negli stadi. Il teatro allora, come lo stadio oggi, fungeva da catartico rituale collettivo di esorcismo.

Il cuore della danza, come del canto, non è nel virtuosismo tecnico, ma nell’intensità espressiva e nella comunicazione emozionale tra l’intero rete e gli astanti. Ciò richiede la giusta “ispirazione”, un rapimento estatico, una forza misteriosa che scaturisce dalle viscere (in alcune culture si parla di vera e propria “possessione”), magari anche indotta dall’utilizzo di bevande alcoliche o droghe rituali.
Come scrive Garcia Lorca parlando di Paganini: “un potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega“, che non ha niente a che fare con la bellezza o con la maestria tecnica.

F. Quinones descrive il “duende” flamenco (il “tarab” del mondo arabo) come “un’istantanea e abbagliante apparizione del subcosciente cieco dell’interprete, del centro stesso della sua anima… a volte violento e drammatico… altre volte un impercettibile sussurro, un tremante fluido impalpabile”.
E Lorca racconta il caso di una vecchia di ottanta anni, che a un concorso di ballo vinse il primo premio contro splendide e giovanissime ragazze, “per il semplice fatto di aver alzato le braccia, sollevato la,testa e dato un colpo di piede sul palco”. Stregoneria pura. Una virtù magica, che battezza con acqua oscura tutti coloro che guardano.

Niente di più lontano dalla nostra idea di danzatore professionista, che strumentalizza a fini economici la propria arte, o anche semplicemente che accetta l’ idea di esibirsi su richiesta. Il “demone” va e viene come vuole; non è possibile costringerlo.

Bioenergetica /2: dall’orgone allo zen

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“La bioenergetica si propone di aiutare l’individuo a tornare ad essere con il proprio corpo e a goderne la gita con quanta pienezza possibile […] in una cultura che nega i valori del corpo a favore del potere, del prestigio e del possesso.” (Alexander Lowen)

[continua da: Bioenergetica/1]

Questo post mi sta particolarmente a cuore, perché tenta di spiegare come mai, nel mio percorso di danzatrice, cercando un’espressione corporea il più possibile fluida e libera, ho abbracciato due sentieri che sembrano non avere molto a che fare l’uno con l’altro, ne’ con la danza in genere: la bioenergetica e lo zen.
Nella mia esperienza le tre cose sono intimamente connesse. Il corpo esprime chi siamo, e’ il nostro modo di essere nel mondo. Più il nostro corpo e’ vivo e vitale, libero, spontaneo, più siamo nel mondo. Purtroppo la gente e’ per la maggior parte dei casi inconsapevoli degli handicap corporei che la tormentano, al punto che essi sono divenuti una seconda natura:  la cosiddetta “corazza”, ovvero l’atteggiamento difensivo e diffidente che ci e’ purtroppo abituale, nonostante che la natura primaria di tutti gli esseri umani sia di essere aperti alla vita e all’amore.  “In realtà”, scrive Lowen, “molta gente attraversa la vita con un budget di energie e di sensazioni limitato”, chiusa alle emozioni e alla vita.

Ecco quindi che la bioenergetica si ripropone di aiutare le persone a “riaprire il cuore alla vita e all’amore”, a riconquistare la condizione di libertà, grazia bellezza: gli attributi naturali di ogni organismo animale.
La libertà e’ l’assenza di repressione interiore, il “lasciarsi andare” al flusso delle sensazioni; la grazia l’ESPRESSIONE DI QUESTO FLUSSO NEL MOVIMENTO (lo scrivo in lettere maiuscole, per evidenziare l’intima connessione tra bioenergetica e danza spontanea, non coreografata, che e’ alla base della mia personale ricerca),  infine la bellezza e’ la manifestazione dell’armonia interiore generata da questo flusso.

Il flusso genere la coscienza di se’. Coscienza ed esperienza sono fenomeni corporei. Il corpo vivente non e’ solo una meccanica somma di funzioni biologiche, ma ha una mente, possiede uno spirito e contiene un’anima. Non e’ un sistema chiuso, ma un eco-sistema energetico in costante interazione con l’ambiente. Siamo tutti sensibili alle forze e alle energie che ci circondano, in connessione con l’universo. Accettando le restrizioni che la società ci impone, tagliamo questa connessione, tradiamo il nostro corpo e “sovvertiamo anche l’ambiente naturale da cui il benessere del nostro corpo dipende”.

In genere la nostra mente e’ tutta presa dal bisogno di controllarsi, a scapito dell’esigenza di essere e sentirsi più viva. 
Porre mente al corpo e’ il cardine della bioenergetica: solo così possiamo sapere chi siamo, cioè conoscere la nostra stessa mente. Conoscere davvero la nostra mente significa sapere ciò che si vuole e ciò che si sente, non lasciarsi influenzare dagli altri, non reprimere le proprie emozioni, non tradire il proprio corpo.
Tutto ciò veniva scritto da Alexander Lowen negli anni ’40 del secolo scorso. L’ambito e’, come sappiamo, quello del fervore di studi di matrice psicoanalitica freudiana, rivista e corretta attraverso la “vegetoterapia” reichiana prima, e poi la terapia orgonica. Niente di più lontano dal pensiero orientale. Eppure, quasi con le stesse parole con cui il maestro zen Takuan descrive nell’antico Giappone lo stato di mente libera che pervade il corpo:
“Se non ponete la vostra mente in alcun luogo, essa vi pervaderà il corpo diffondendosi in tutto il vostro essere, cosicché quando avrete bisogno delle mani essa farà lavorare le vostre mani, quando avrà bisogno dei piedi essa farà lavorare i piedi, quando avrà bisogno degli occhi farà lavorare gli occhi.”
La mente deve essere libera di espandersi in tutte le direzioni, fluida come l’acqua che non si fissa in alcun luogo, senza che la sua energia venga trattenuta: “se fissate la mente su qualcosa, siete deformati….[invece] se non vi preoccupate di fissarla, la mente pervade l’intero essere.
Ciò mi ricorda un celebre proverbio zen, che dice: “Questo e’ così. Ma se vi fissate, non e’ più così”. L’importante e’ per l’appunto,non fissarsi, non indugiare, non lasciarsi ossessionare dalle cose, mantenere un’attitudine aperta e lasciarsi fluire, letteralmente, come acqua.
Lowen avrebbe senz’altro concordato con Takuan, quando sosteneva che bisognasse “lasciar andare la mente attraverso tutto il corpo”.
Non e’ affascinante constatare come due uomini così diversi per educazione e ambiente, geograficamente e culturalmente agli antipodi, abbiano concepito lo stesso concetto quasi con le stesse parole?…..

Bioenergetica/1

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“Siete il vostro corpo” (A. Lowen)

La bioenergetica, fondata in America negli anni cinquanta da Alexander Lowen, brillante allievo di Wilhem Reich, viene definita “una psicoterapia a mediazione corporea“: significa che pone al centro l’identità funzionale tra corpo e mente, partendo dal concetto di unitarietà della persona.
Secondo questa visione che intende lo psichico e il somatico come funzioni strettamente correlate alla funzione energetica globale, le tensioni muscolari rappresentano la controparte fisica di conflitti psichici che si sviluppano attraverso esperienze traumatiche infantili. I conflitti si strutturano nel corpo sotto forma di restrizione del respiro e limitazione della motilità,  si cronicizzano e diventando parte inconsapevole della struttura corporea e del modo di essere dell’individuo. 

La bioenergetica rappresenta un ponte fra la filosofia orientale e la psicologia occidentale. Parte dal presupposto che ogni individuo disponga di una energia vitale che consente l’interazione fra corpo e mente: e’ lo stesso concetto espresso in modo differente a seconda degli influssi culturali che ritroviamo nei Veda, nelle discipline del Sol Levante, nella Bibbia. Nella tradizione ebraica è il “Soffio Vitale” con cui Dio anima gli esseri umani dandogli vita e coscienza, in India la chiamano “Prana”, in Giappone “Ki”, in Cina “Qi”, in Polinesia e alle Hawaii “Mana”. Ippocrate la chiamava “Vis Mediatrix Naturae” e nell’antica Grecia di Galeno era “Pneuma”. Ermete Trismegisto la chiamò “Telesma”, l’alchimista Robert Fludd “Spiritus” e gli adepti della Kabala “Luce Astrale“. E ancora venne chiamata “Fluido Magnetico” da Mesmer e “Energia Orgonica” da Wilhelm Reich.  E’  l’anima della forza e dell’energia stessa, l’essenza di ogni movimento. È presente in tutto e penetra tutte le forme della materia, senza essere materia in sé. E’ è più concentrata in certi posti, come la cima delle montagne o le zone vicino ai fiumi, manifestandosi come maggior concentrazione di ioni negativi, mentre nei luoghi inquinati la si trova indebolita.

Tale energia si manifesta soprattutto nel radicamento o grounding, ossia la postura. Il termine “grounding” si può tradurre in italiano con l’espressione “essere sulle proprie gambe”, “avere i piedi per terra” e diventa uno degli obiettivi terapeutici fondamentali dell’Analisi Bioenergetica. Avere un buon grounding significa mantenere il contatto con la propria realtà esterna ed interna e con le proprie sensazioni, essere presenti a se stessi.
Cardine del grounding e’ la capacità di lasciarsi respirare liberamente, cercando di far scendere il proprio baricentro fino alla pancia, punto che gli orientali chiamano “hara“. 

Tutti gli esercizi della bioenergetica hanno lo scopo di far aumentare la sensazione di contatto con se stessi e con la realtà, di rendersi consapevoli dei propri movimenti in associazione alle emozioni, di ampliare la respirazione e migliorare la circolazione dell’energia nel corpo. Disponendo di maggiore energia, il soggetto comincia a tornare in contatto con le emozioni represse potendo così integrarle all’interno della propria personalità.

[continua]

“Una persona che non respira a fondo riduce la vita del corpo. Se non si muove liberamente, limita la vita del corpo. Se non sente pienamente, restringe la vita del corpo. E se reprime la propria autoespressione, limita la vita del corpo.” (A. Lowen)

SHAKTI, l’Energia Creativa Femminile

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Spesso ci si riferisce allo yoga Kundalini anche con la definizione di Shakti yoga. E’ una definizione che sento particolarmente mia, basando la mia opera e la mia vita sulla manifestazione “shaktica” dell’energia creativa femminile. Ragion per cui, spenderò oggi qualche riga per introdurre questo concetto.

SHAKTI e’ l’aspetto femminile della creazione, ma anche la forza distruttiva che rinnova e crea nuovo significato.
Quale energia personificata, SHAKTI già compare nei Veda come compagna di Indra, il Re del cielo. Nella Śvetāśvatara Upaniṣad (quindi successivamente, nel periodo post-vedico) SHAKTI è presentata invece come potere supremo, senza cui gli dei sono inattivi. E’ Lei che continuamente trasforma tutti gli elementi dell’universo, la forza primaria della vita che soggiace a tutto l’esistente.

SHAKTI e’ energia: elettricità, magnetismo, luce, calore, e le loro infinite manifestazioni, i cinque elementi e le loro combinazioni.  
L’aspetto visibile di tale energia e’ la DAIKINI.
DEVI e’ invece l’aspetto di tale energia come linguaggio deificato, ovvero il potere della parola e del suono nel suo duplice aspetto: udibile e impercettibile (percezione intuitiva eterea).

Nei culti tantrici si ritiene che ogni donna sia pervasa dalla SHAKTI, possegga cioè quell’energia divina che rende possibile le trasformazioni nel cosmo, risultando così più potente dell’uomo. Conseguenza di ciò è che la donna è considerata un “messaggero” del divino, una via di accesso all’unione con Dio, o comunque a uno stato di coscienza superiore.
E’ l’Intelligenza della mente divina o Gayatri, la Madre Sacra dei Veda, che giace dormiente nel  MULADHARA chakra sotto forma di forza serpentina (KUNDALINI), arrotolata in tre spire e mezzo.

KUNDALINI ( dal sanscrito: “di natura spiraliforme”) e’ definita da Swama Rhada “un fuoco di consapevolezza che brucia l’ignoranza”: il risveglio dalle illusioni, una costante de-ipnotizzazione da tutti i condizionamenti, la libertà dalla tirannia degli obblighi sociali e dalle aspettative altrui.
Le sue spire rappresentano SATTVA (purezza), RAJAS (passione), TAMAS (oscurità), ovvero la triade mente-corpo-linguaggio. La mezza spira ulteriore rappresenta l’ interazione tra questi tre principi.

I CHAKRA corrispondono ai “plessi” delle fibre pregangliari che emergono dalla prima vertebra dorsale alla quinta lombare, andando a formare una catena paravertebrale dal cranio al coccige. Sono dei “ricettori-trasmettitori” grazie a cui il sistema neurovegetativo trasmette onde, vibrazioni e radiazioni al nostro organismo.

Il primo di essi, su cui ci soffermiamo, e’ il MULADHARA, in corrispondenza del plesso lombosacrale, tra ano e genitali.  Indica la nostra appartenenza alla terra, i nostri bisogni fisici. Nei movimenti pelvici della danza del ventre, come scatti del bacino in avanti, ondulazioni, ma anche i passi, che richiedono l’equilibrio della zona pelvica come centro del nostro corpo, noi usiamo e stimoliamo questo chakra ad un corretto equilibrio. 

Se in equilibrio, conferisce il  “grounding“, ovvero il senso di radicamento. E’ connesso all’idea di nutrimento, alla capacità di scaricare le tensioni e di risucchiare energie dalla terra.
Se e’ in squilibrio per eccesso: provoca un eccessivo attaccamento alle cose materiali, possessivita’, gelosia.
Se, al contrario, e’ in squilibrio per difetto: provoca la tendenza alla fuga dalla realtà, il rifiuto del coinvolgimento fisico, problemi con la figura materna, problemi di rapporto con il denaro. A livello psicologico, ci si sente deboli e “persi”, sradicati.  A livello fisico, e’ causa di problemi alle gambe (come tendiniti e sciatalgia), che denotano una certa difficoltà a “stare coi piedi per terra”. Inoltre può provocare emorroidi e stipsi. 

Ecco lo specchio completo delle sue attribuzioni:

1- MULADHARA o CHAKRA PERINEALE (PLESSO LOMBOSACRALE)

Tattva: facoltà differenziante
Brahma: forza creativa
Yantra: quadrato (terra)
Loto: 4 petali colore rosso
Profumo: cedro
Senso: olfatto
Organi: ghiandole surrenali, sistema osseo
Comando: Volere
Frase-chiave: Io sono
Mantra: VAM-SHAM-SHAM-SAM
Suono-seme: LAM
Attività: passeggiate a piedi nudi, ballare.
Nota: DO
Strumento: percussioni, didjeridoo
Danza: tribale

[continua]

Teoria Vibratoria e Risonanza /3: implicazioni con la Danza

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[continua da: “Teoria Vibratoria e Risonanza /2” ]

Dopo tante lunghe digressioni nel vasto campo della musicologia attraverso la tradizione orientale, lo zen, lo yoga kundalini, la fisiologia anatomica ed esoterica, arriviamo infine al nocciolo della questione, a ciò che maggiormente, da danzatrici, ci interessa.

La danza, come la musica, sono infatti profondamente interconnesse: non e’ possibile capire l’una senza l’altra. Entrambe caratterizzano e modificano in modo analogo gli stati psichici, emozionali e fisiologici, le risposte biochimiche del nostro corpo. Secondo alcuni studi, sarebbero entrambe il risultato dell’imprinting della nostra vita intrauterina, il tentativo dell’uomo di rimanere il più possibile in prossimità delle esperienze sensoriali della vita fetale. Entrambe giungono a una regressione simbolica che permette lo sblocco di complessi psichici latenti.
Attraverso di esse possiamo disimbrigliare  le nostre emozioni con un’esplosione incontrollata di gesti, liberando l’azione di moto spontanea, la riabilitazione del vissuto corporeo, l’accesso alla dimensione estetica ed estatica dell’esistenza. Entrambe rappresentano un’irruzione sovversiva nella nostra coscienza, la rottura della quotidianità, l’esplosione rivoluzionaria nei confronti dello stereotipato, dell’abitudinario, dell’alienante.

Danza e musica sono così intimamente connesse: si “ascolta” la musica con tutto il corpo ( in cui sono sparsi numerosi recettori collegati a strutture nervose che percepiscono i suoni), innescando una reazione spontanea di moto.
“E’ la parte vestibolare (dell’orecchio) ad avviare i ritmi. Se un impulso e’ impresso nel labirinto membranoso, questo impulso determina una mobilizzazione dei liquidi endolinfatici […] La danza e’ il riflesso corporeo della danza stessa dei liquidi, come quest’ultima e’ il risultato dell’integrazione dei movimenti del corpo”.  (Tomatis, “Verso l’ascolto umano“).

Il RITMO e’ soprattutto legato alle reazioni fisiologiche. L’espressività del ritmo provoca un bisogno spontaneo di esteriorizzazione corporea.  Il ritmo e’ l’elemento vitale della musica, una forza in movimento che propulsa l’azione, una forza che e’ essa stessa movimento.
E’ stato evidenziato il carattere fortemente simbolico dei ritmi in rapporto alla psicologia e all’antropologia. Il ritmo in quattro quarti, ad esempio, sembra associato a tutto ciò che e’ connesso alla terra, al lavoro, al compimento di opere e alla ciclicità stagionale. Se dimezzato (2/4), si associa all’idea di festa, di seduzione, e alla dimensione profana in genere. I tempi composti (6/8, 12/8), invece, caratterizzano simbolicamente il misticismo, la magia e la dimensione del sacro.

Anche la MELODIA, come il ritmo, passa per la presa di coscienza del corpo attraverso le tensioni muscolari della voce. La risonanza corporea quindi e’ molto più forte quando si ascolta una musica cantata.

Ma e’ l’ARMONIA, la combinazione dei suoni successivi o simultanei a dare alla musica la sua potenza espressiva. Il suono e’ caratterizzato dalla propria durata, altezza, intensità e dal timbro dello strumento che lo produce. Ma il suo valore musicale dipende essenzialmente dal suo rapporto combinatorio con gli altri suoni. Analogamente nella danza, e’ il gioco sottile delle modulazioni e delle variazioni (di passi, di tempo, di direzione nello spazio) a conferire colore armonico e forza espressiva, attraverso la DINAMICA e il FRASEGGIO.

DINAMICA
Contrariamente a quanto potrebbe suggerire a prima vista il termine, per “dinamica” in musica non si intende la velocità con cui viene eseguito un brano (che si chiama “agogica“), ma la gestione delle intensità sonore (forte, piano, e tutte le gradazioni e i passaggi tra questi, come ad esempio il “crescendo” o il “diminuendo”) con le quali il compositore intende che il suo brano sia eseguito.
La dinamica musicale si attua in danza, ad esempio, come contrazione e distensione muscolare oppure come distribuzione del  peso (spinta e controspinta, slancio e ricaduta, gravità verso il suolo, ecc.)
Ma la dinamica in danza può essere intesa anche  come variazione di tempo e di intensità in rapporto allo spazio percorso, alla velocità con cui lo si percorre, allo sforzo richiesto per percorrerlo.

FRASEGGIO
In musica una frase è una raggruppamento di motivi o nuclei melodici di senso musicale compiuto, analogamente a quello che sintatticamente è una frase all’interno di un discorso. Come nel parlare, infatti, la forza espressiva del discorso risiede nelle variazioni degli accenti, delle pause, dei cambi di registro, allo stesso modo nella danza le combinazioni di ritmi, pause, direzioni diverse aggiungono pathos e rappresentano altrettante variazioni di connotazioni emotive, che modificano a loro volta il tono muscolare.

Ogni movimento ha un suo respiro, dai piedi alla testa. All’inizio può essere utile associare i movimenti alle fasi della respirazione, ma occorre poi svincolarsene per concentrarsi non tanto su di essa, quanto sull’energia del movimento in rapporto al tempo e allo spazio. il fraseggio si realizza attraverso le variazioni (di velocità, intensità, direzione, ecc. ) del movimento generato dal respiro. La purezza e forza espressiva del movimento semplice, che si sviluppa in un unico respiro con gli accenti della musica, sono alla base della Hilal Dance (da Suraya Hilal), specificamente connessa alla saggezza orientale della conoscenza del corpo. Una danza sicuramente “zen”, che si ispira allo spirito dell’arte e del pensiero filosofico orientale come armonia degli opposti, e si traduce nella ricerca di una energia interiore di movimento costantemente improntata all’equilibrio e centrato sul respiro.

Teoria Vibratoria e Risonanza /2

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(continua da: “Teoria Vibratoria e Risonanza /1“)

Già nel Gandharva Veda furono riuniti un gran numero di testi che si riferivano alla metafisica e alla fisica del suono, alla semantica e al simbolismo musicale, alla storia e alla teoria della musica, e inoltre ad applicazioni artistiche, magiche e terapeutiche dei fenomeni sonori.
 
Il corpo umano è un sistema concepito per vibrare. E’ uno strumento che emette vibrazioni e suoni propri, ma la maggior parte di essi non sono udibili. Il corpo e la psiche ricevono suoni e musica, li trasformano interiormente in emozioni e “rispondono” con vibrazioni proprie, con una musica propria, così come ci insegna il Nada Yoga, lo yoga del suono.
 
La musica risveglia tutti i nostri centri energetici (Chakra), regola la produzione e il riassorbimento di neurotrasmettitori e peptidi (quelle macromolecole che alleviano il dolore e la sofferenza, agendo su specifici recettori cerebrali), coinvolge il corpo e la psiche in vari modi: il sistema uditivo, il cuore, il sistema nervoso, il sistema endocrino, la pelle, il respiro, il subconscio, l’inconscio.

Quando ci lasciamo andare all’ascolto, ci abbandoniamo al flusso e ci apriamo a un livello di coscienza più ampio. Non esiste più la mente egocentrica che “pensa di ascoltare la musica”, ma l’unità mente-corpo sarà immersa nella musica, sarà musica. 
Immagini e fantasia aggirano i processi difensivi dell’inconscio, e l’azione motoria spontanea viene liberata.

Tutte le cose che vibrano sono sensibili tra di loro e si influenzano a vicenda mediante la legge sottile dello scambio vibratorio. Siccome il corpo si comporta come un diapason messo vicino ad un altro diapason accade che i corpi e i loro componenti entrano in risonanza simpatica o simpatetica e si mettono a vibrare alla stessa frequenza. 
Il corpo in stato di riposo vibra ad una frequenza di 8 cicli al secondo, che è anche la frequenza delle onde cerebrali “Alpha”, prodotte dal cervello in stato di rilassamento, come anche la frequenza fondamentale della vibrazione terrestre.

Il nostro apparato uditivo è limitato nella percezione delle frequenze acustiche in un range compreso tra 20 cicli al secondo (Hz) e 20.000 cicli al secondo (Hz). Al di sopra (ultrasuoni) e al di sotto (infrasuoni), non siamo in grado di percepire nulla. L’elettroencefalogramma evidenzia cinque tipi di onde emesse dal nostro cervello:
Beta  (13 – 30 Hz) sono proprie delle normali attività di veglia o fase REM del sonno, indicano che la corteccia cerebrale è attivata;
Alpha (8 – 13 Hz) sono associate a uno stato di veglia ma rilassata. La mente è calma e ricettiva. E’ lo stato ideale per lo studio o la meditazione;
Theta (4 – 8 Hz) sono tipiche di uno stato meditativo profondo e/del dormi/veglia;
Delta (0,5 – 4 Hz) sono caratteristiche del sonno profondo e del coma.
Le onde Gamma sono rare e relative a frequenze superiori ai 30 Hz nel range 30-90 Hz e sono correlate con la volontà e i profondi poteri psichici.
La meditazione consiste nell’alterare, con la forza di volonta’, il proprio stato cerebrale. Applicare uno sonoro alla giusta frequenza può aiutare a raggiungere lo stato desiderato.

Fin dalla nostra infanzia abbiamo vissuto, sperimentato ed immagazzinato diversi modelli sonori, associando a ciascuno di essi una sensazione, un significato, una circostanza: tutti questi suoni possono essere definiti modelli sonori condizionati, derivanti da una associazione mentale. 
Esistono però anche dei modelli sonori incondizionati, a cui appartiene tutta una gamma di “suoni primitivi“, puro riflesso delle emozioni e comprensibili da tutti senza bisogno di precedenti condizionamenti cognitivi. Oggigiorno esistono solo due suoni incondizionati (primitivi): il pianto e il riso; tutti gli altri suoni primitivi sono ormai scomparsi insieme ad una parte della spontaneità comportamentale. 
La musica ha il grande potere di suscitare forti sensazioni emotive, in funzione del tipo di esperienza personale se si tratta di suoni condizionati o comuni a tutti gli individui se si tratta di suoni primitivi, contribuendo in tal modo a rimuovere l’enorme bagaglio di accumuli emotivi che sono la principale causa dei fenomeni patologici a sfondo psicosomatico.

Il Talamo è la struttura fisica dove le sensazioni e le emozioni, per mezzo del ritmo sonoro, provocano una risposta automatica inconscia. A livello corticale possiamo apprezzare un’armonia, ma e’ solo a livello subcorticale (come anche per gli animali) che possiamo “capirla”.
La musica generalmente invia due messaggi: uno che si indirizza all’emisfero sinistro del cervello, quello della percezione cosciente; l’altro, il piu’ debole, che viene percepito dall’emisfero destro, dall’inconscio.

La risonanza può essere utilizzata in musicoterapia per indurre la persona a sentirsi accolta e compresa, senza l’ausilio di parole, e può riportare ciascuno di noi alle esperienze originarie vissute nella nostra storia personale fin dall’istante del concepimento. La vita all’interno del grembo materno è infatti un susseguirsi di fenomeni acustico-sonori che impregnano di esperienza il bambino che sta crescendo ed influenzeranno la sua vita futura. 
Possiamo lasciarci cullare dalla melodia, dall’armonia, dal ritmo e dal timbro in un abbraccio che ricorda quello del grembo materno, oppure possiamo liberare le nostre emozioni con un’esplosione incontrollata di gesti, liberando l’azione motoria spontanea. 

Riferimenti: 
http://www.amadeux.net

[continua]

Teoria Vibratoria e Risonanza /1

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Vorrei riprendere e approfondire l’argomento mantra per introdurre i concetti di ritmo, vibrazione e risonanza. Si tratta di un capitolo omplesso, che mi sta particolarmente a cuore poiché ha con la nostra danza la più intima connessione, ragione per cui mi riservo di ritornare con numerosi altri post su questo argomento.

Riprendiamo intanto il discorso sui mantra più o meno da dove l’abbiamo gia iniziato: un mantra è una potente e breve formula sonora spirituale che ha la capacità di trasformare la coscienza. Secondo Swami Sivananda Radha, un mantra è una combinazione di sillabe sacre che formano un nucleo di energia spirituale, il cui scopo e’ di fungere da magnete per attrarre le vibrazioni spirituali, o da lente per metterle a fuoco.  Secondo le Upanishad, le antiche scritture dell’India, la dimora originale del mantra era l’Akasha o etere primordiale, da cui l’universo stesso è stato creato nell’emettere il primo suono, Vach (Un simile resoconto si può trovare nel Vangelo di San Giovanni: «All’inizio era il Verbo…»). Tutta la musica indiana è basata sulla comprensione che in ogni suono esistono due aspetti: l’espressione udibile e la sottile essenza-suono che trasporta il significato e che deriva dallo Spirito eterno. Questa essenza è per l’appunto il Vach.  

La parola Mantra è formata da due particelle: Man significa mente e Tri significa attraverso. il Mantra serve per attraversare il mare della mente,  superare l’oceano che separa il conscio dall’inconscio. Il canto, o la recitazione, dei Mantra attiva e accelera la forza creativa spirituale, promuovendo armonia in tutte le parti dell’essere umano. 
La sua efficacia e’ collegata alla Teoria Vibratoria, secondo cui l’intero mondo fenomenico consiste di vibrazioni via via più sottili, dal piano fisico a quello emozionale, mentale, spirituale.
Direttamente commessa allaTeoria Vibratoria e’ il concetto di RISONANZA.
Se una sorgente sonora viene investita da un’altra sorgente sonora di diversa frequenza (numero di oscillazioni complete al secondo e si misura in Hertz) quasi non reagisce. Ma se le due frequenze, quella propria e quella esterna, sono simili e quindi hanno gli stessi valori di oscillazione, la sorgente entra in vibrazione aumentando la sua ampiezza, e quindi rinforzando il suono. Si dice allora che essa entra in risonanza.
Il fenomeno della risonanza applicato agli esseri umani è stato definito Biorisonanza. Ogni persona, nella propria complessità bio-psico-spirituale, può essere considerata come un campo energetico e vibratorio che consiste di: un campo elettromagnetico generato dal corpo fisico, un campo mentale generato dalla psiche e un campo spirituale generato dal sé (atman).

Pitagora associava suono, matematica e natura formulando una teoria scientifica che supponeva l’esistenza di tre tipi di musica: quella strumentale propriamente detta, quella umana suonata dall’organismo e quella suonata dal cosmo. Egli parlò di Musica delle Sfere, pensava che i movimenti dei corpi celesti producessero dei suoni e che questi suoni potevano essere percepiti da chi si era preparato consapevolmente ad ascoltarli.

Come in alto, così in basso, dicevano gli antichi alchimisti. Analogamente alla musica delle sfere, così anche ogni cellula del nostro corpo ha uno specifico campo magnetico cui e’ associata una frequenza di vibrazione.  Il moto vibratorio caratterizza le maree, il battito cardiaco, il movimento dei pianeti, la danza degli elettroni attorno al nucleo dell’atomo. Anche ciascun pensiero ha una sua frequenza vibratoria che corrisponde a una specifica risonanza.

Alcune risonanze hanno il potere di condurci fuori dalla nostra percezione ordinaria. La musica tribale e le danze sacre hanno essenzialmente questo scopo. Il battito profondo e ipnotico del tamburo sciamanico che simboleggia il ritmo del cuore apre la dimensione del sogno vigile e del viaggio iniziatico. Il battito ossessivo e indiavolato della tammorra apre le porte degli inferi, delle viscere della terra: la dimensione ctonia, tellurica dell’inconscio.

[continua]